Impressioni (quasi) a caldo dopo la visione dell’ultimo film di Wong Kar Wai.
La premessa irrinunciabile (e decisamente palese) è che io adoro Wong Kar Wai.
E quindi adoro (o quasi) a priori ogni suo lavoro.
Detto questo: il primo film americano del cineasta cinese è per certi versi diverso da tutti i suoi lavori precedenti, poiché il regista si avventura su territori e dimensioni finora inesplorati e per noi irriconoscibili.
Gli immensi paesaggi desertici del Nevada, le malinconie notturne di New York, le atmosfere fumose di un desolato interno notte di Menphis acquistano una dimensione di sogno attraverso la magistrale fotografia dell’iraniano Darius Khondji.
Ed acquistano una dimensione di sogno tutti i cliché del nuovo mondo: dite addio ai sedili posteriori dei vecchi taxi di Hong Kong e Singapore, e lasciate che il vento vi scompigli i capelli a bordo di una scintillante Jaguar decapottabile; scordatevi il sapore d’antan delle infinite partite di mahjong e sedetevi al tavolo verde di uno squallido casinò insieme alla più glamour delle giocatrici incallite; dimenticate le calze di seta e il ticchettio dei tacchi di Bai Ling o Su Li Zhen e preparatevi a cappellini di lana colorati e borse Louis Vuitton.
Ma preparatevi anche a rivivere tutta la struggente meraviglia delle catastrofi sentimentali dei personaggi- icona di Wong Kar Wai.
My blueberry nights è uno stato d’animo sconsolato, un mood blues (meravigliosa la colonna sonora) che ricorda il tragico bianco e nero delle notti argentine di Happy Together e l’impotente malinconia e vigliaccheria di vivere di Hong Kong Express, con il leit motif di sempre: la patologica incapacità di sincronizzare i sentimenti, e di vivere l’amore senza soffrirne.
Ma qui manca qualcosa, o semplicemente c’è qualcosa di nuovo.
Il mistero dell’amore e la sua malinconia è di nuovo e sempre qualcosa cui si allude solamente, qualcosa che si intuisce continuamente ma non si vede accadere mai.
Dell’amore ci sono ovviamente solo le macerie, le ossessioni, le simbologie (meravigliosa quella legata alle chiavi dimenticate o abbandonate in un bar da innamorati che non amano o non sono amati più)... almeno fino a quel meraviglioso bacio romantico al sapore di mirtillo (150 ciak prima di avere quello giusto).
E’ tutto racchiuso in quel bacio, ciò che manca e ciò che c’è di nuovo in questo film: manca l’incertezza, l’incompiutezza, la perversa e irrinunciabile attitudine alla sofferenza; c’è l’incredibile e quasi stucchevole happy end.
La storia è quella che è, ma noi che amiamo Wong Kar Wai non ci aspettiamo storie originali; noi ci aspettiamo semplicemente un modo originale di raccontarle.
E quindi adoro (o quasi) a priori ogni suo lavoro.
Detto questo: il primo film americano del cineasta cinese è per certi versi diverso da tutti i suoi lavori precedenti, poiché il regista si avventura su territori e dimensioni finora inesplorati e per noi irriconoscibili.
Gli immensi paesaggi desertici del Nevada, le malinconie notturne di New York, le atmosfere fumose di un desolato interno notte di Menphis acquistano una dimensione di sogno attraverso la magistrale fotografia dell’iraniano Darius Khondji.
Ed acquistano una dimensione di sogno tutti i cliché del nuovo mondo: dite addio ai sedili posteriori dei vecchi taxi di Hong Kong e Singapore, e lasciate che il vento vi scompigli i capelli a bordo di una scintillante Jaguar decapottabile; scordatevi il sapore d’antan delle infinite partite di mahjong e sedetevi al tavolo verde di uno squallido casinò insieme alla più glamour delle giocatrici incallite; dimenticate le calze di seta e il ticchettio dei tacchi di Bai Ling o Su Li Zhen e preparatevi a cappellini di lana colorati e borse Louis Vuitton.
Ma preparatevi anche a rivivere tutta la struggente meraviglia delle catastrofi sentimentali dei personaggi- icona di Wong Kar Wai.
My blueberry nights è uno stato d’animo sconsolato, un mood blues (meravigliosa la colonna sonora) che ricorda il tragico bianco e nero delle notti argentine di Happy Together e l’impotente malinconia e vigliaccheria di vivere di Hong Kong Express, con il leit motif di sempre: la patologica incapacità di sincronizzare i sentimenti, e di vivere l’amore senza soffrirne.
Ma qui manca qualcosa, o semplicemente c’è qualcosa di nuovo.
Il mistero dell’amore e la sua malinconia è di nuovo e sempre qualcosa cui si allude solamente, qualcosa che si intuisce continuamente ma non si vede accadere mai.
Dell’amore ci sono ovviamente solo le macerie, le ossessioni, le simbologie (meravigliosa quella legata alle chiavi dimenticate o abbandonate in un bar da innamorati che non amano o non sono amati più)... almeno fino a quel meraviglioso bacio romantico al sapore di mirtillo (150 ciak prima di avere quello giusto).
E’ tutto racchiuso in quel bacio, ciò che manca e ciò che c’è di nuovo in questo film: manca l’incertezza, l’incompiutezza, la perversa e irrinunciabile attitudine alla sofferenza; c’è l’incredibile e quasi stucchevole happy end.
La storia è quella che è, ma noi che amiamo Wong Kar Wai non ci aspettiamo storie originali; noi ci aspettiamo semplicemente un modo originale di raccontarle.
molto femminile questo blog….
Ogni volta che vengo qui mi invogli a vedere qualche film o ad andare in qualche posto.
Meraviglioso.
Come le parole che da tempo mi lasci quando passi da me.Ti voglio bene…
dopo questa premessa…..ho paura a vederlo…. ti saprò dire. Grazie
A me è piaciuto, nonostante condivida il fatto che non sia uno dei suoi migliori film! 🙂
Grazie per l’approvazione dei colori delle pareti, io adoro il viola!
Per il compleanno, in realtà sul profilo non so perchè ho una data a caso…ma sono nata l’11 agosto, quindi don’t worry, sei in tempissimo! 🙂
Correggerò la data comunque.
Un bacione, Claudia
nonostante le molte critiche a me è piaciuto!