Poco fuori dal borgo medioevale di Montalcino c’è una bella collina con il viale fiancheggiato da cipressi sottili, l’antico casolare di pietra dorata, i vigneti carichi di grappoli scuri e tutto intorno fitti boschi di querce e corbezzoli. Ed è proprio dal corbezzolo o meglio dalla sua radice, che in dialetto locale si chiama “macioca”, che prende il nome la piccola azienda vinicola che sorge su questa collina e che ho visitato pochi giorni fa.
Qui l’Autunno dà il meglio di sé con i pampini rossi, le mattine nebbiose e i tramonti infuocati, e lo splendore del paesaggio ricompensa perfino il viaggiatore incauto che (come me) abbia scelto di arrivare in questo rinomato angolo di Toscana con uno stillicidio di trenini regionali.
L’etichetta elegante, con la radice stilizzata di corbezzolo e la dicitura in corsivo “Prodotto in Italia”, racconta molto di quest’azienda di sei ettari rilevata esattamente un anno fa da tre giovani ed entusiasti imprenditori veronesi: Stefano Brunetto, Massimo Bronzato e Riccardo Caliari.
La loro visione della viticultura è ovviamente sostenibile e in bilico tra innovazione e tradizione.
L’azienda fin dalla sua nascita ha avuto un approccio ai processi di vinificazione che escludeva l’uso di sostanze chimiche, privilegiando l’utilizzo di prodotti e tecniche naturali come il sovescio, e il primo obiettivo dei nuovi proprietari è proprio quello di completare la conversione all’agricoltura biologica ed ottenere la relativa certificazione entro il 2018.
Quindi metodi di coltivazione bio ma non solo: alle mie domande sui trattamenti utilizzati in vigna, Stefano mi racconta che le piante vengono trattate con degli induttori di resistenza in grado di renderle più “equilibrate” e resistenti alle malattie. Quindi via libera a propoli, equiseto, echinacea, alghe e potassio; insomma una sorta di fitoterapia che permette di rafforzare i tessuti vegetali, rendendoli più resistenti agli attacchi fungini, ma anche di stimolare la produzione delle sostanze antibiotiche naturali della pianta.
L’azienda ha in programma da questo Autunno anche un iter di sostenibilità ed efficienza energetica con il calcolo dell’impronta ambientale (Carbon Footprint e Water Footprint) e la scelta di essere “green” anche nei piccoli dettagli.
Stefano Brunetto, che si occupa in prima persona della gestione della tenuta, ci ha spiegato con orgoglio i tanti piccoli accorgimenti che permettono di fare la differenza nel campo della sostenibilità: così il vetro delle bottiglie è riciclato al 95%, i cartoni da imballaggio sono a fustella unica, i tappi in sughero provengono da aziende che rispettano i cicli di coltivazione e produzione, i bancali sono in materiale riciclato e pressato e le cassettine di legno che ospitano il Brunello (oltre ad essere particolarmente stilose) sono prodotte in legno certificato FSC.
Ma parliamo un po’ anche del vino: la tenuta Le Macioche ha una superficie di sei ettari e una produzione media di circa 18.000 bottiglie. A partire dal 2001 l’allevamento è stato convertito a guyot e la raccolta è fatta a mano.
La vinificazione del Brunello avviene in tini troncoconici di rovere di slavonia e quella del Rosso di Montalcino in tini d’acciaio, con il progetto però di convertirsi in futuro al rovere francese e al cemento non trattato.
I lieviti sono rigorosamente indigeni e, puntando all’eleganza più che al corpo del vino, si è scelto di non utilizzare le barriques. Così i Brunelli di Montalcino Le Macioche riposano dai 40 ai 50 mesi in botti ovali di rovere francese prodotte da una vera e propria eccellenza dell’arte bottaia: l’artigiano di Borgogna Marc Grenier.
Entusiasmo, Innovazione, Sostenibilità e Qualità sono sicuramente le parole chiave di quest’azienda vitivinicola la cui filosofia, come ci ha confidato con un sorriso Stefano durante la nostra degustazione, si può riassumere tutta in un concetto: quello secondo cui il vino si fa in vigna e in cantina si cerca solo di non rovinarlo!