Giorno n. 43 di lockdown, confinamento in casa, arresti domiciliari o comunque vogliate chiamarli.
In realtà la mia quarantena è iniziata il 29 Febbraio (anno bisesto anno funesto: mai proverbio fu più veritiero) all’aeroporto di Kathmandu, quando mi è stato rifiutato l’imbarco su un volo IndiGo per Delhi.
Improvvisamente il mio passaporto Italiano, quello stesso documento con su scritto “Unione Europea” che mi aveva aperto le porte di 78 Paesi via terra, aria e mare era diventato carta straccia, facendomi sentire peggio di un cittadino dell’Afghanistan.
Lo shock è stato tale che credo di aver pianto per qualcosa come 12 ore consecutive (iniziando proprio in aeroporto dove sono dovuti intervenire a consolarmi passeggeri francesi, canadesi ed indiani e personale di terra di ben 2 compagnie aeree); poi è subentrata l’incredulità e la convinzione che si fosse trattato di un errore della compagnia aerea perché nella confusione totale di quei giorni il mio visto risultava ancora “granted” sul sito del Governo Indiano e la Farnesina non riportava alcuna notizia riguardo alla chiusura dei confini indiani ai cittadini italiani.
Alla fine (dopo 24 ore trascorse senza mangiare e quasi senza dormire, girando come una pazza tra gli uffici delle varie compagnie aeree e cercando di contattare inutilmente al telefono la Farnesina) è subentrata la rassegnazione più cupa e, visto e considerato che il mio volo intercontinentale di ritorno era previsto da Delhi una settimana dopo e che anche Qatar Airways sosteneva di non sapere nulla del fatto che gli Italiani non potessero entrare in India, ho comprato un volo di sola andata Kathmandu-Fiumicino via Abu Dhabi alle ore 12.00 del 1 marzo, per imbarcarmi nemmeno due ore dopo.
All’epoca gli aeroporti erano ancora vivaci ed affollati e, nonostante lo shock e la stanchezza, mi sono goduta al massimo il mio volo last minute in Business Class e il mio stop over negli Emirati con tanto di doccia e massaggio nella lounge e champagne breakfast prima dell’atterraggio a Roma.
Certo non avrei mai immaginato che quello sarebbe stato il mio ultimo viaggio per un periodo di tempo indeterminato e non riuscivo a capire perché i miei genitori fossero venuti a prendermi in stazione con un enorme mazzo di tulipani e le facce stravolte di chi accoglie una sopravvissuta.
L’ho capito qualche giorno dopo, assistendo alle odissee delle migliaia di viaggiatori bloccati negli aeroporti di tutto il mondo e scoprendo all’improvviso (con l’aria stralunata che deve aver avuto Jared Leto uscendo dal suo ritiro spirituale nel deserto e trovandosi faccia a faccia con il coronavirus) che non potevo più andare in palestra né dal parrucchiere e che mi serviva un’autocertificazione per uscire di casa.
Sono passati 43 giorni (+12) durante i quali ho attraversato ogni possibile stato d’animo.
Rabbia, frustrazione e rancore verso l’Universo ed i miei carcerieri (leggi Governo Italiano) sono stati i sentimenti prevalenti dall’inizio del lockdown fino ai primi di Aprile (con un picco di depressione nera il giorno in cui Ryanair ha cancellato i voli con cui io e le mie amiche ci illudevamo ancora di raggiungere Ibiza per le vacanze di Pasqua!).
Voglio essere assolutamente sincera: altro che “stiamo uniti anche se distanti” e “riscopriamo il nostro patriottismo” e “vogliamoci bene”!
Io non ho mai cantato sul balcone (e non solo perché non ho un balcone) e non ho mai fatto i cori sull’inno di Mameli.
Io ero semplicemente ed egoisticamente furibonda perché la mia adorata India (il mio Paese del Cuore dove dovevo recarmi per la quinta volta) mi aveva rifiutato l’ingresso; perché avevo fatto la cheratina l’11 marzo pomeriggio e il lockdown nazionale è iniziato poche ore dopo, lasciandomi con i capelli irrimediabilmente sbiaditi; e perché non potevo andare in scuderia ad occuparmi del mio adorato cavallo quasi ventottenne come e quando mi pareva.
Io volevo fortissimamente essere apolide (che tanto il passaporto italiano era ormai diventato carta straccia!) e mi pentivo di non essermene rimasta in Nepal.
Poi il 2 aprile mi è venuto un ascesso fulminante e ho iniziato ad imbottirmi di medicinali: antibiotici, paracetamolo e Ibuprofen presi ad intervalli regolari di due ore, perché niente riusciva a togliermi il dolore lancinante di uno di quei mal di denti che ti fanno solo desiderare di sbattere la testa contro il muro e morire.
Nella notte tra il 3 e il 4 Aprile ho chiamato la Guardia Medica in piena crisi isterica pensando di essere in overdose da paracetamolo (vi giuro che esiste ed è anche parecchio pericolosa!) e, quando ho scoperto alla fine di una telefonata delirante che il medico di turno era un mio vecchio amico (con cui montavo a cavallo all’epoca in cui io ero una studentessa universitaria e lui un ragazzino del ginnasio) mi sono quasi messa a piangere per la commozione.
Da lì è iniziata la fase emotiva della mia quarantena: una settimana in cui non ho fatto altro che piangere davanti alle repliche di Candy Candy in TV, alle pubblicità lacrimevoli della Barilla, ai cori di bambini di tutto il mondo che cantavano “All’alba vincerò” e alle conferenze stampa della Protezione Civile.
Piangevo e basta, passando dagli occhi lucidi ai singhiozzi disperati, e pensando cose del tipo “grazie al declino del genere umano finalmente il Pianeta è tornato a respirare”.
In quei giorni ho iniziato a frequentare delle classi di yoga online e a cantare i Kirtan due volte a settimana per la gioia del Signor G. (che è in smart working da 43 giorni e vede la stanza accanto a quella in cui è in call conference trasformarsi in una sorta di tempio degli Hare Krishna).
Anche questa fase lacrimevole è fortunatamente passata: ora non mi commuovo più per qualsiasi cretinata ma continuo a fare yoga e a cantare Om Namah Shivaya con i cd di Krishna Das, più consapevolmente e meno emotivamente.
Il giorno in cui Ursula von der Leyen ha consigliato di non prenotare le vacanze estive ero già entrata nell’ultima fase, quella dell’accettazione e (pur associandomi al pensiero di Vittorio Sgarbi sulle uscite infelici di quella donna) sono riuscita a reagire dignitosamente e a non lasciarmi morire di dolore al pensiero dei nostri 18 giorni prenotati tra Vietnam e Laos, con tanto di crociera di 3 giorni nella baia di Ha Long su una giunca privata denominata L’Amour.
Anzi volete sapere una cosa?
In questi giorni mi sento perfino felice: sono felice di passare un sacco di tempo con il Signor G. che prima vedevo solo all’ora di cena; sono felice di poter dormire fino a tardi al mattino senza sentirmi in colpa, perché tanto non ho niente da fare e sono confinata in casa come gran parte della popolazione mondiale; sono felice di poter cucire cuori messicani, perline e pailettes su un vecchio parka di Zara che indosserò l’anno prossimo ad Ibiza; sono felice di essermi goduta la fioritura dei ciliegi nel mio giardino perché erano almeno due anni che me la perdevo mentre ero dall’altra parte del globo; sono felice di avere una casa confortevole in cui la quarantena si può quasi considerare una stay-cation e sono felice di poter sentire ogni giorno le mie amiche grazie a WhatsaApp e a tutte le diavolerie tecnologiche per le call di gruppo.
Insomma ho trovato un equilibrio un po’ zen e un po’ ispirato al lifestyle nordico: sono in uno stato d’animo che è in bilico tra l’Hygge danese (la filosofia del coziness, del ritagliarsi dei momenti speciali da condividere con chi si ama) e il Cosagach scozzese (che predica l’essere emotivamente in sintonia con l’ambiente circostante per ricavarne gioia).
Così io ricavo gioia dal poter fare yoga nel mio angolino preferito di casa, mentre la pioggia batte sui vetri, dal bere una tazza di tè in giardino godendomi gli alberi di ciliegio in fiore, dal raccogliere primule ed erbe selvatiche per preparare un insalata di misticanza, dal non sapere più che giorno è perché ho smesso di fare il conto alla rovescia per questa quarantena e dal fatto che finalmente la mia pianta di rabarbaro (dopo anni) sia germogliata ed abbia ben tre gambi, sufficienti a preparare un vasetto di marmellata.
Non so se sia rassegnazione o serena accettazione ma ho trovato un buon equilibrio mentale e, pur non vedendo l’ora di tornare a viaggiare, cerco di godermi il qui ed ora, l’hic et nunc.
Letto ora ,fantastico.Sai scrivere benissimo. Anche io ho avuto un po di problemi.Il mio stato d’animo per i voli soppressi , la gita a Lisbona cancellata 24 ore prima e la consapevolezza di perdere un’estate almeno mi ha agitato non poco.Poi il Karma: avevo continuato a dire basta scuola , e basta andare ancora a scuola , le mie amiche un po’ più grandi alla mia età erano già in pensione da due anni.Prima mi rovino la gamba, poi scoppia la Pandemia. Lo giuro non dirò più niente e fatemi andare ancora in quelle palestre puzzolenti . P.S. Anche io ho iniziato a fare yoga su Instagram.. Ciao e chissà quando ci vedremo .Fabiana
Amica mia ti capisco! All’inizio è stata durissima… veder scomparire tutti i progetti di viaggio da un giorno all’altro in un’escalation catastrofica è stata durissima, specialmente all’inizio, quando gli unici appestati del Pianeta eravamo noi Italiani…
Ma poi sono giunta ad una fase di accettazione, un po’ perché “mal comune mezzo gaudio” e un po’ perché avevo davvero bisogno di rallentare, di riposarmi fisicamente e psicologicamente.
Io voglio essere fiduciosa sull’Estate in arrivo… alla più brutta pare esista un piano governativo denominato “Viaggio in Italia” e ci rassegneremo a non poter viaggiare all’estero…
Un abbraccio amica mia e speriamo a prestissimo!
Se posso esprimere il mio parere personale, questa quarantena ti ci voleva…con il dolore e la fatica, ti ha obbligato a fermarti e rallentare. I viaggi per il mondo sono bellissimi ed interessanti ma il vero viaggio è dentro di te
Non avrei mai creduto di poterlo dire ma è vero: un rallentamento mi ci voleva!
Non riuscivo a rendermi conto di quanto fossi stanca, fisicamente e psicologicamente.
Non avrei mai rallentato i miei ritmi se non fossi stata costretta a farlo e dopo un primo periodo di crisi nera ora riesco a rilassarmi e a godermi questo nuovo modo di vivere slow.
Un abbraccio!